IL
MINESTRONE
Di
Italo Zandonella Callegher
Piuttosto
piccolo di statura, pelle ruvida e seccata dal sole, le spalle curve dal duro
lavoro, le gambe ercoline, Toni era il tipico esemplare del contadino montanaro.
Viveva solo e felice. Felice, forse, perché solo! Una mattina, come sempre da
quando aveva iniziato a lavorare e non si ricordava neppure lui quando, aveva
legato i suoi buoi al misero carro che aveva riassestato d’inverno, nel
fienile, a colpi di scure. Sul carro aveva caricato tutto ciò che gli serviva
per il periodo della fienagione, che durava tutt’agosto, ai prati di Collesei.
Le mucche, otto in tutte, le aveva mandate in ferie, come diceva lui, alla malga
Rinfreddo ed ora si sentiva più libero. Libero come uno che lavorava sedici ore
al giorno, dormendo sul fieno fresco, umido e caldo per la fermentazione,
alzandosi presto, ancor buio,col mal di schiena, gettando da parte il telo
servito da lenzuolo e coperta ed impugnando la falce, attrezzo per il suo pane.
Seduto sul carro, accompagnava fischiettando il rumore prodotto dagli zoccoli
dei suoi buoi. Le strade erano ancora bianche, strette e tortuose. Ma Toni era
un uomo furbo. Sapeva che la polvere faceva male ai polmoni. Gliel’aveva
raccontato una sera d’inverno al
bar Quattro Venti, l’amico Bepi che aveva lavorato in miniera per gli
austriaci. E così fischiettava solamente espirando l’aria dal suo forte
torace. Sul podere ereditato dal padre, un’enorme estensione di prati
verdissimi dove l’erba cresceva copiosa ed aromatica, delizia per il bovino
palato, era a mezza costa del monte Collesei, fra Popera ed il passo di Monte
Croce. Al centro, su d’un ripiano dominante la valle, la sua grande baita,”
l barcu”, sfoggiava il nuovo tetto di scandole.
Vi giunse al pomeriggio. Aprì
la porta e, prima di scaricare il carro e liberare i buoi faticosamente arrivati
fin lassù, si sedette sul vecchio tronco d’abete a fumare la pipa.
Era di domenica naturalmente.
Perché
Toni fumava solo alla festa. Un modo come un altro per santificare e ricordare
un giorno diverso. Fra una boccata e l’altra pensava a cosa avrebbe potuto
cucinare. La solita polenta non gli andava proprio. E poi, il giorno dopo,
avrebbe
dovuto arrostirla sulla brace ed il suo stomaco non sempre accettava tale cibo.
Sì! Avrebbe preparato un buon minestrone. Aveva portato con s’è, raccolte
fresche nel suo orto laggiù in paese, delle buone verdure: cipolle, carote,
piselli, fave. La sorgente era a cinque minuti di sentiero, verso est. La legna,
secca e resinosa, era ancora lì, sotto la baita, dall’anno prima. Nulla di
meglio quindi, di un abbondante minestrone. E domani e doman l’altro lo
avrebbe riscaldato, ci avrebbe aggiunto un po’ di pane di segala, dei pezzetti
di formaggio stagionato e, senza perdere tanto tempo dato che il lavoro non gli
mancava di certo, il pranzo era servito.
Così fece ed notte inoltrata si ritirò nella sua baita. Al chiarore del
piccolo lume ad olio, sistemò ben bene il telo sul poco fieno lasciato apposta
l’inverno scorso quando, con la slitta, era venuto, la neve alta così, a
portarselo a valle. Prima di assopirsi, fece il segno della Croce, ricordò i
suoi morti, guardò la luna attraverso le fessure delle travi.
Il bosco, tutt’intorno, l’erba del prato, i grilli, tacquero.
Toni doveva dormire. Quando
il primo raggio di sole uscì dalle crode dei Longerin, Toni aveva già falciato
da un’ora. L’erba bagnata dalla rugiada si lasciava tagliare bene e la falce
cantava la sua ballata, veloce e continua. Ogni tanto Toni estraeva dal corno
appeso alla cintura, sotto la schiena, una specie di pietra ed affilava la
falce. Prima
che il sole fosse alto nel cielo e le lunghe file d’erba ammucchiata
erano già state sparse a dovere. Ora Toni poteva riposare un po’ e pensare al
pranzo mentre il sole avrebbe seccato i fragili steli ormai morti. Non aveva
voglia di accendere il fuoco. Faceva troppo caldo. E poi il minestrone, diceva
sua madre prima di lasciarlo solo a questo giorno, era buono anche freddo.
Mentre mangiava non poteva fare a meno di esprimere a se stesso i più
sentiti elogi. Un minestrone così buono non gli era mai capitato di assaporare.
Eppure lui cucinava da anni e con gli stessi ingredienti e con la stessa acqua.
Non riusciva proprio a capire come mai fosse diventato così bravo. Forse il
contadino ed il boscaiolo non sono i miei mestieri. Il cuoco, il cuoco, devo
fare. E giù minestrone, senza
neppur degnare d’uno sguardo la catena del Popèra
che
tanto gli piaceva e che sempre aveva sognato di salire.
Ma sì! Mangiamo ancora un mestolo. Al diavolo l’avarizia! E con
l’ultimo mestolo, uscì dal paiolo qualcosa di strano, un lungo e flessibile
oggetto, simile ad una molla di ferro, di colore bianco, orribile ed
agghiacciante nell’aspetto: una colonna vertebrale di biscia.
Toni si sentì male! Credeva
di morire. E si mise a correre come un forsennato giù per i prati,
sulla strada, fino a Campotrondo, fino in paese alla casa del botanico, unico
sapiente (allora) della zona. Ma
non morì! Visse fino a
novant’anni per raccontare a tutti la sua storia, la sua grande avventura di
provetto gastronomo. C’è chi
dice che minestroni così, lui, ne abbia fatti ancora dopo d’allora… Sono passati due secoli, forse più, forse meno, da quando la
gente dell’ Alto Comelico parla di questo fatto. Sarà leggenda?
Probabile! Fatto sta che il podere del povero Toni, esperto in
fieno, legna e…minestroni, si chiama proprio, ancor oggi, Pian della Biscia.