LA
LEGGENDA DI TIN
Di
Italo Zandonella Callegher
Senza
corda e senza chiodi, Tin s'arrampicava sulla grigia dissolvenza dei
sogni.
- Ke fast(u) lasù! E n ora k te spéti!
-Vad su...
-T vàs su, sì! ma al tabié a guarnà li béstii, tuonò suo padre, un
vecchio arcigno, ma sostanzialmente buono, solo pelle e nervi, togliendo
bruscamente le coperte dal letto quando fuori era ancora tutto uno scintillio di
lumi nel cielo e mozzando d'un colpo il sogno del fanciullo.
Tin, dodici anni e molta fantasia, era un ragazzo laborioso e mite. Ha un
Solo difetto - diceva suo padre - ama troppo le crode!
Intanto il freddo pungente della camera rivolta a nord sussurrava l'invito ad
alzarsi. Accarezzandosi il ciuffo e grattandosi la tempia come un gattino
nervoso, Tin guardava la sua squallida stanza, le sue povere cose. Un armadio
sconnesso, elementare, quasi nero che sfidava da un secolo la legge di gravità;
un letto altissimo lavorato di sega nella vana ricerca dell'autore d'una
ispirazione artistica, forse nel passato di gran moda, ma ora utile al ragazzo
solamente per funamboliche esercitazioni atletiche, tant'era grande la difficoltà
del montarci su... E se non fosse stata per la nenia cantata dalle foglie di
pannocchia formanti il rude materasso, il bivacco su di un aerea cengia non
sarebbe stato solo fantastica parvenza. Vicino al letto una vetusta cassapanca, I
bankòn, lunga due metri, alta e larga uno, dipinta da mano incerta, forse
lo stesso autore dell'armadio che, deposta la sega e i chiodi e il martello,
aveva preso pennelli e colore dando sfogo alla sua ricerca, rimasta tale. Alcuni
fiori dipinti di rosso, eran gli unici a dare un po’ di vita a tanta penombra.
Sopra i fiori una data: 1627, anno in cui era nata l'opera. All'interno del bankòn
la riserva alimentare della famiglia: farina gialla da polenta, orzo,
segala, avena, un po' di sale... Dal muro irregolare di calce, che un tempo
doveva esser stato bianco, un vecchio Cristo tarlato e mutilato guardava, dal
suo unico occhio, le pallide assi d'abete del pavimento. La solitaria capocchia
nera del chiodo stava ad indicare che originariamente una mano era là. Oltre la
porta che dava sulla stanza delle sorelle di Tin, da una all'altra parete, due
sottili travi di legno portavano il peso della carne affumicata di pecora, di
corde pel fieno, di vasi pel latte, di cianfrusaglie varie, tutte scendenti a
formare una strana, irregolare rassegna di prodotti e di oggetti ai quali il
ragazzo s'ispirava fantasticando... Su una finestra, le cui imposte eran sempre
chiuse e fra queste e una finissima rete metallica, altra carne essiccata faceva
bella mostra di sé dando all'ambiente uno strano effluvio pecorino. Sotto il
letto, oltre il vaso, nascosta nel buio e nel segreto più cupo, una corda di
strisce intrecciate di cuoio. Oltre alla corda Tin possedeva un'altra ricchezza:
la seconda finestra. Gli scuri eran aperti, il loro sbatacchiare una compagnia:
un'affermazione che il vento c'era, che l'aria c'era, la vita pure. Col vento la
fantasia di Tin correva sui monti a rincorrere gesta più grandi di lui, imprese
che doveva fare! Attraverso il debole chiarore dell'ultima luna, Tin ammirava la
grandiosa catena del Popèra: l'Aiàrnola, la Croda da Campo, la Croda di Tacco,
la Cima Bagni e il Monte Popèra, la Cima Undici, la Croda Rossa,...
E fra quest'ultime si posava il suo sguardo curioso, attirato dall'eterea
calamita della passione, sull'enorme varco stagliantesi nel cielo nero della Val
Fiscalina: il Passo della Sentinella, profonda breccia naturale fra due grandi
cattedrali di roccia. Una crepa immane che l'orizzonte rendeva ancor più
grande. Tin aveva udito dal nonno che un mitico gigante aveva poggiato il suo
indice fra questi monti, ancora poltiglia primordiale, quasi volesse abbassarne
le creste per vedere al di là la Val Pusteria ed aveva formato il famoso Passo,
simbolo del Comelico. Dopo il gigante, forse, nessuno aveva più guardato oltre
la bianca spaccatura e questo era il tormento ed il sogno del ragazzo: salire al
Passo per primo, raggiungere quella meta agognata, quel bianco sospeso fra
l'azzurro e la roccia; vedere l'altra valle; ritornare per dire a tutti che lassù
non c'era più il gigante dal lungo dito curioso, che non esisteva il drago
dalle mille teste di fuoco, che le anime dei morti volavano altrove, molto più
su, che il sanguigno colore vespertino era solo l'ultimo sospiro infuocato del
sole morente. Ma come far capire a quelle teste dure dei suoi che lui doveva
andare? Che una voce misteriosa portata dal vento del nord e penetrata nel cuore
gli aveva imposto di salire? Come poteva?
- Tin, alòra! Li vaci à fami! -Si, nòn(i) alòlu.
E giù per le scale, sul pianerottolo, su quel maledetto gradino che
scricchiolava sempre, con una calza in mano, la maglia nell'altra...
Immersa nella fioca luce del lumino ad olio, la mamma di Tin preparava la
colazione nell'ampia, rustica cucina. Anche qui la stessa dignitosa semplicità.
Un larìn nell'angolo destro gioiva al calore del primo fuoco. Il piccolo
paiolo di rame, tanto lucido dentro quanto nero fuori, portava all'ebollizione
il bianco liquido bovino. Vicino, un altro recipiente conteneva il caffè
d'orzo. Sulla madia un pane di segala. Nell'angolo sinistro una vecchia credenza
a quattro ripiani rientranti a mo' di scala, con umili accenni d'intarsio,
conteneva delle ciotole, alcuni piatti anche pregevoli arrivati in
quell'ambiente chissà come e varie altre stoviglie. Sotto, quattro secchi di
rame per l'acqua. Al centro della stanza un massiccio tavolo d'abete, tanto
pesante da far traballare le gambe non sufficientemente robuste per sorreggere
il ripiano, riempiva l'ambiente. Alcune sedie, un crocifisso affumicato, una
cassapanca piena di nulla, completavano l'arredamento. Intanto fra la nera
caligine dei muri s'infiltrava la bianca luce dell'alba.
-Tò, manga, disse la madre posando sul tavolo fra una ruga di legno e
l'altra una grande ciotola di caffelatte,
- ...e pò va su d kòrsa, s no t fas tardi. Tin prese del pane con una
mano, del formaggio con l'altra e ben presto la colazione scese verso le vie
della continuazione della vita.
Il tabié dove Tin doveva
recarsi tutte le mattine per accudire al bestiame era a mezz'ora di cammino
verso nord, sopra il paese. Un buon sentiero partiva dal centro e tagliava
l'erta prativa fino ad inoltrarsi nel bosco di conifere nel quale s'apriva,
ridente e soleggiata, la radura del tabié. Ma Tin preferiva salire
direttamente lungo un prato ripidissimo che gli pareva un canalone e dove la
fantasia tramutava l'erta in parete, l'erba in appigli, il sentiero in una
cengia da seguire. Da lassù tutto era più bello. La catena del Popèra era lì
davanti, le cime rosse dall'accendersi del sole. Il Passo della Sentinella, il
suo Passo, più bello che mai. Da qui sembrava più basso, più abbordabile. Il
vaso del latte dondolava leggero, ritmando i passi. Tin ascoltava la sua voce;
si diceva:
- Domani non posso tentare la salita
perché c'è la legna da fare a Selvapiana. Dopo domani, neppure! Ma
venerdì forse... Si! Credo proprio di si! Dovrebbe arrivare lo zio dalla città,
ci sarà trambusto, accoglienze, festa. Non s'accorgeranno subito della mia
assenza e quando lo scopriranno io sarò già di ritorno.
- Bundì Tin! -
Ah! Bundì bundì voi - replicò il ragazzo quando il
guardaboschi era già passato d'una ventina di metri.
- .Io sarò già di ritorno dal Passo. C'è
ancora parecchia neve, ma ho sentito dire che in giugno è dura e che ci si
cammina sopra facilmente. E poi io peso poco, no? Eh, perbacco! Vad su, sì;
parké no! Dovrò procurarmi qualcosa da mettere sotto i denti. Già, farò così:
nei prossimi due giorni di legna mangerò meno. Nasconderò un po' di pane e
formaggio e una bottiglia di latte sotto un masso e venerdì quando passerò per
Selvapiana... Benissimo, è fatta! Ah ah, come sono contento... Sta ferma Nina,
sta buona. Ma che diamine, tieni via quella coda; non son mica una mosca...
Assorto nei suoi pensieri a stento Tin s'era accorto di essere già nel tabié.
Solo la coda della Nina, la mucca di razza bruno-alpina vanto della
famiglia, e il caldo contatto con le sue mammelle lo aveva riportato alla realtà.
Riempì la mangiatoia, pulì la scacchiera di legno del pavimento, lavorò di
striglia, chiuse la porta della stalla e canticchiando s'avviò verso casa. Il
vaso era colmo di latte e non ritmava più il susseguirsi dei passi. Il bosco
era un arcobaleno di colori vivaci. Il sole giocava a rimpiattino fra le resine
dei larici. L'Aiàrnola, di fronte, sbucava da un anello di nembi.
- Ahi! - disse Tin - Kan K l'Aiàrnla
fà cintura, l temp(u) bél n dura! Quel semplice rincorrersi di nuvole
attorno alle groppe ed agli anfratti del monte era presagio di cattivo tempo.
Tin lo sapeva bene. I contadini del paese se lo ripetevano da sempre e da sempre
indovinavano. Col viso incupito dall'ansia per il probabile cambiamento di
programma, entrò nell'ampia cucina, versò del latte per il fabbisogno
familiare in un rozzo recipiente tutto botte e solchi e portò il resto alla
latteria sociale.
- Ke ast(u), Tin, k t és sèriu? -
gli chiese Noveffa che s'avviava alla prima messa come sempre, ogni mattina, da
quando era invecchiata e gli uomini non la desideravano più.
- Nénti, nénti - rispose Tin e
aggiunse qualcosa tra i denti che stava a significare: - che te ne frega,
falsa bigotta!?
Il ragazzo era nervoso. Pensava al suo Passo, alla conquista che fra due
giorni poteva esser sua. Se qualche amico avesse potuto accompagnarlo, quanto più
facile sarebbe stato l'approccio col monte. Ma i suoi amici avevano altri sogni,
altri traguardi: Tunin fumava già con tabacco di foglie secche di nocciolo e si
dava un sacco d'arie; Toldo amava Lina e ne era ricambiato. Lì aveva visti lui,
giù al vecchio mulino sul Torrente Padola mentre si accarezzavano e la Lina gli
mostrava una gamba...; Tita era lo sgobbone della classe, miope come una talpa.
Parlava solo difficile e voleva farsi prete. Chin era già un piccolo artista,
lavorava il legno con maestria nel piccolo, unico laboratorio del villaggio,
aiutando suo padre. Tutti bravi ragazzi, tutti buoni amici, ma Tin si sentiva
ugualmente, terribilmente solo con la sua passione, con le sue crode. Già nel
passato s'era avventurato fino al Monte Zovo; un'altra volta più in su;
un'altra ancora fino in vetta all'Aiàrnola e solo lui sapeva quant'era stata
grande la sua gioia. Un mondo immenso giaceva ai suoi piedi: buona parte del
Cadore, il Comelico tutto, la conca di Auronzo. Lui era il re, il dominatore
temporaneo di quel regno fatto di verde e di luce. Risaputa in paese e alterata
l'impresa del giovinetto, egli venne da qualcuno redarguito, da altri esaltato.
Tin s'era ormai creato un'aureola di leggendario arrampicatore. Affrontare l'Aiàrnola
da solo, a dieci anni, in un pomeriggio afoso di mezza estate gli aveva valso la
stima dei suoi compagni, l'ammirazione incondizionata di alcune adolescenti. Ma
a Tin questo non importava. Lui l'amore lo voleva fare più avanti, quando la
conquista del Passo lo avrebbe reso famoso e quegli strani uomini vestiti da
damerini giunti dalle città della pianura o del Tirolo lo avrebbero pregato di
guidarli, previo sostanzioso premio in moneta sonante, sulle rocce rossastre del
Popèra. Poi avrebbe fatto vedere lui a quella smorfiosa di Mia che l'unico uomo
da sposare era lui, altro che fare i sorrisetti
a quello stupido di Toni, buono solo a portare letame con la gerla, un
puzzone alto così, con un cervello tanto piccolo quanto grande era il tronco.
Quel martedì Tin lo passò a trasportare col padre, mediante una specie di
rudimentale barella, la terra del campo di patate. Questo campo era posto in
discreta pendenza e ne risultava che, per la naturale legge gravitazionale, la
terra dell'appezzamento rendesse a scendere verso valle. Il lavoro, quindi,
consisteva nello scavare col badile, nel margine inferiore del campo, una fossa
profonda una trentina di centimetri e larga cinquanta e il materiale che ne
usciva, trasportato a monte del campo stesso da dove, nel giro di un anno,
sarebbe ridisceso a riempire la fossa. Un lavoro duro che Tin non apprezzava. Ma
quel martedì lo fece con insolita passione tanto da meravigliare il padre.
-Brau, Tin. T és avòi a davantà n òn - e gli diede una possente
manata sulla spalla, non si sa bene se per complimentarsi o se per far staccare
dalla mano l'abbondante terriccio appiccicatosi. In effetti Tin aveva lavorato
sodo, solo fermandosi al suono di mezzodì per mangiare un po' di polenta e
formaggio fritto, che tanto gradiva. Aveva voglia di faticare perché si rendeva
conto che solo irrobustendosi sarebbe riuscito a conquistare il Passo della
Sentinella. Un po' meglio andarono le cose il giorno appresso. Suo padre lo
aveva lasciato dormire due ore più del solito, come premio alla sfacchinata sul
campo di patate. Al tabié c'era andato lui, forse spontaneamente, forse,
più probabile, perché spinto dalle dolci, ma convincenti parole della mamma di
Tin, una santa donna, dal temperamento nobilissimo, ma deciso, gran sgobbona,
tutta lavoro e figli e sempre in missione, come diceva l'austero marito,
dai parenti malati, dalle persone bisognose, dai nipoti orfani e soli... Una
donna come poche, insomma e Tin ne era fiero. Se finora s'era astenuto dal
rincorrere i suoi sogni che lo avrebbero inevitabilmente portato sui monti, era
stato solamente per non darle preoccupazioni.
Il mercoledì e giovedì tutta la famiglia s'era portata a Selvapiana, nello
splendido scenario, anfiteatro naturale, racchiuso dal Monte Colesei, dal
Creston Popèra, dagli Sfulmini, dai Campanili, dai Torrioni dei Bagni, per
lavorare il legnatico da fuoco, accatastarlo sotto qualche abete, segnarlo con
la sigla di famiglia... Quando d'inverno sarebbe giunta la neve, Tin e suo padre
avrebbero trasportato le fascine fino a Moiè, con le slitte, li liòdi, e
da lì al paese, tirate dalla giovane manza all'uopo addestrata.
- Sta fèrmu kan ke s manga, Tin - esclamò fra il dolce ed il seccato sua
madre stanca di vedere il ragazzo allontanarsi saltellando, come per gioco, dal
luogo dello spuntino nel bosco, col pane e formaggio in mano, aggirare un masso,
ritornare, riprendere altro cibo e ripetere il carosello. Se fosse stata più
attenta, la buona donna si sarebbe facilmente accorta che, in quel breve giro,
il ragazzetto non poteva mangiare così tanta roba. Tin aveva messo in pratica
il suo piano: alla fine del pasto, in una nicchia sotto un masso, avvolta in
alcune grandi foglie umide, una sufficiente provvista di pane e formaggio, una
piccola bottiglia di latte attendeva l'alba allorquando il Tin sarebbe ritornato
a riprendersela. E nessuno s'era accorto di nulla...!
Il tempo sembrava mantenersi al bello. Alcune nuvole scarlatte, lassù sopra la
Cima Popèra, oltre la Cengia di Ghiaccio, giocavano rincorrendosi verso sud, si
fermavano, riprendevano la giostra nel vento mentre la mano dello spazio
scendeva a coprire il cerchio sanguigno del sole. Una pallida luna di cristallo
s'alzava guardinga là dove le creste brune dei monti sembravan congiungersi col
cielo ormai appisolato.
Un altro duro giorno di lavoro era finito. Ma Tin non era stanco. Non ne aveva
il tempo! Doveva pensare all'indomani, al come avrebbe fatto a sparire di casa
senza farsi notare. Il solo pensiero che suo padre lo avesse scoperto con la
corda di cuoio nella bisaccia e avesse capito le sue intenzioni, gli procurava
un tremore indicibile, un'intima trepidazione, un vero e proprio dolore fisico
intestinale... Ormai era buio, la strada ancora lunga per giungere in paese. La
madre intonò le litanie e la famiglia in coro rispondeva l'ora pro nobis.
Ed ecco oltre la curva le prime case, la prima gente che tornava al focolare, la
notizia fredda, precisa, sicura che inchiodò Tin al bianco terriccio della
strada:
- Dumàn va su li vaci n monti.
Maledizione a quel vecchio corvo di Iseta sempre in giro a riportare discorsi,
sempre pronta a distruggere i sogni altrui per amplificare i propri! Da quando
il fidanzato l'aveva lasciata per gonne più nobili (e pulite) ed eran trascorsi
vent'anni, si diceva, non faceva altro che gracchiare e portar discordie.
- Véca, véca! - gridò rabbiosamente Tin senza aspettare risposta dalla
stupida megera.
- Ma guarda un po'! Proprio domani
doveva decidere di accompagnare le mucche all'alpeggio questa gente egoista. L'occhio
di Tin incontrò lo sguardo di suo padre, penetrante e lucente come un laser sul
quale lesse l'amara sentenza:
-
Dumàn, t as kapù!
- Sì, ma...
- Dumàn!!
- Ho capito, ho capito! Domani alla Casera
Rinfreddo; - borbottò - maledizione! E il mio Passo? La mia scalata?
- Bunsèra, Tin. Dumàn nòni su apéd (i)
tè n kasèra. -
Era Tita, lo sgobbone, che s'offriva di accompagnarlo fino alla malga a spingere
quelle odiate mucche che andavano in ferie, a riposare se mai avevano una
volta sola lavorato!
- Tita, ti interessa ancora quella
fionda? - disse Tin al quale era balenata una stupenda idea.
- Sì, perché?
- Te la regalo se domani vai tu da solo ad
accompagnare le bestie. Sai, io sono occupato; arriva lo zio da lontano e devo
aspettarlo.
- Affare fatto, Tin.
- Ma non dirlo a mio padre. Lui non vuole
che regali la roba di casa.
- Non preoccuparti. Conosci i miei
principi!
- Si, si li conosco - pensò Tin -
li conosco bene, ma intanto la fionda la prendi e sai quanto mi è cara. Ma cos'é
in fondo un semplice arnese da gioco barattato con la possibilità o meno di
salire al Passo?
La sera stava trascorrendo lentamente; la monotonia invadeva la scura
cucina.
- Didòn su l rusàriu - esclamò la madre inginocchiandosi sulle assi
sconnesse, seguita dagli altri.
- Pater noster... dumàn vad su, finalmènti...
fiat voluntas tua... spròn k faza bél témpu... et dimitte nobis debita
nostra... bisòna k me rikòrdi d la kòrda... et ne nos inducas in tentationem...
Amen! -
esclamò forte Tin quando già la madre intonava l'Ave. Le sorelle
scoppiarono in una sonora risata e più sonora giunse fra capo e collo una
manata del padre al fanciullo distratto. La notte trascorse lenta ed agitata
nella speranza dell'alba...
Quando il padre entrò nella stanza, Tin era già in piedi vestito.
- Kòm(i) mai?
- Eh, Kusì.. N avéu sònu.
Tin infilò due paia di calzettoni e si mise gli scarponi chiodati, nuovi di
zecca, roba da festa. Tita l'aspettava sull'uscio. L'accordo era che le bestie
gli venissero consegnate al tabié. E così fu! Poi Tin divallò veloce
sulla strada per Valgrande... Era solo, libero, contento. Nessuno, ormai, poteva
più fermarlo. Attraverso il fitto del bosco gli giungeva il canto mattutino
degli uccelli. Le ombre delle conifere si diramavano sulla strada, ancora
semibuia, come tanti peduncoli stregati. La luna dava il benvenuto al nuovo
giorno e si ritirava a riposare. Giunto a Selvapiana raccolse da sotto il masso
le sue provviste e s'incamminò spedito verso la bastionata che doveva condurlo
al Vallon Popèra. Conosceva già questo tratto. C'era stato col guardaboschi a
raccogliere stelle alpine. La cascata del Risena era tutta uno spruzzo
d'argento, l'acqua canterina una compagnia ideale. Sull'orlo roccioso una veduta
fantastica. L'imbuto nero della valle era sotto, sprofondato nel silenzio. Su più
in alto, molto più su, i primi colori dell'alba. Al centro del Vallone il verde
cupo dell'erba, il bianco dei ghiacciai, il grigio perla del macereto... Tin era
titubante! Per la prima volta doveva varcare i confini dell'ignoto. Nessuno, che
lui sapesse, s'era spinto oltre. I lèmuri della fantasia popolare dovevano già
essersi rintanati negli anfratti del monte. Il gigante dal lungo indice doveva
sparire col sorgere del sole. E il sole era lì caldo, invitante che illuminava
i mammelloni erbosi.
- E poi, diamine! Chi può vivere quassù
se non un vivo? Come fanno le anime dei dannati a resistere al vento che tutto
avviluppa e sospinge? Avanti! Vado avanti e mi fermo solo lassù sul mio Passo.
Il suo borbottio lo fece trasalire, poi sorrise e partì. L'occhio limpido d'un
laghetto nel quale si specchiavan turriti castelli di roccia tormentati dal
vento, segnava il termine del declivio. Ora bisognava salire decisamente fino a
lambire il ghiacciaio, poi su ancora per l'erta senza tregua, per l'immane
conoide fino alla meta di tanti sogni, alla gioia del desiderio appagato. Gli
scarponi chiodati sprizzavan scintille tant'era la foga dell'incedere. Un sasso
cadde lontano; un altro lo seguì più vicino, sibilando il fischio della morte.
Sul ghiacciaio s'aprì una crepa,... in alto da un cupo, strettissimo canalone
precipitavano grosse pietre che il sole aveva baciate e staccate dal gelo. Il
vento flagellava le cime. Ma Tin avanzava deciso e sicuro, calcandosi sul capo
il grosso berretto di lana greggia, quasi volesse coprirsi l'udito. Si sentiva
sempre più piccolo; le montagne lo sovrastavano enormi ed arcigne; la valle
s'inabissava, ormai piena di luce, verso gli affetti che aveva lasciato. La
grandiosità del luogo lo schiacciava, annientava quasi la sua volontà. Il
sudore usciva copioso, come il succo di un'arancia spremuta.
- Debbo arrivare, debbo! Mio Dio, come
sono stanco. Aiutami, non farmi indietreggiare, non farlo, no!
Una folata di vento, quasi una mano divina, lo sospinse verso l'alto.
- Grazie, Iddio, grazie! Ma questo vento
che va verso nord non porta buon tempo...
Infatti grosse nuvole incominciavano ad accarezzare le cime dei monti,
scendevano fra le guglie ardite, lambivano le pareti del circo.
- Ormai ci sono! Non m'interessa la nebbia,
il freddo, l'ignoto...
Pochi metri... il Passo della Sentinella... il vuoto della Val Fiscalina.
- Ke bél, ke bél!
Tin aveva vinto! Due grosse lacrime gli solcarono il viso e caddero a terra,
perline di ghiaccio. Pianse, rise, pregò. Il paese era laggiù, piccolo,
insignificante. Dall'altra parte ancora valli, ancora case: la vita. Sopra di
lui un grande dito pietrificato, ma non era quello del gigante... E le anime dei
dannati dov'erano?
- Ma va là Iseta, vecchia strega! Hai
spaventato tutto il paese con le tue frottole. Domani ti sistemo io - disse
seccato il buono, l'eroico Tin sedendosi ai piedi del Dito, al riparo dal vento.
Appoggiò la testa alla roccia e s'addormentò. Sognò che un angelo volava
sopra la valle e lo chiamava, lo invitava, forte, tanto da svegliarlo.
- Neve! Miseria nera, nevica. Guarda
quanta! Debbo partire subito. Ma perché mi sono addormentato? E c'è pure la
nebbia... -
e si tuffò nel baratro irreale, sprofondando nel freddo elemento,
scivolando e rialzandosi sempre più bianco, sempre più titubante. Il Passo non
si vedeva più. Un umido grigiore lo copriva tutto. Anche in basso la stessa
cosa e Tin sbagliò itinerario seguendo le rocce di destra che davan sul grande
Ghiacciaio Alto. Ed ecco il meschino tradimento, la vendetta atroce contro chi
troppo aveva osato! Un piede in fallo, un urlo che lacerò il silenzio, un tonfo
sordo...
- No!
no! Perché? Mammaaaaa... ah.. ah!
Poi, la quiete della morte! In un profondo crepaccio il corpo esanime di Tin
tingeva di rosso il candido suolo. Il vento tacque, le slavine si fermarono. Un
corvo smise di gracchiare e passò pentito. Pioveva, ora. La montagna piangeva
uno dei suoi figli. Poi la rabbia degli elementi scoppiò violenta: una guerra
titanica fra i titani dell'etere. Il vento urlò il suo dolore fra le creste di
Cima Undici e grossi macigni colpiti dal vortice scesero, prima velocemente, poi
dolcemente a poggiarsi sul crepaccio coprendo, quale materno velo, il corpo
martoriato di Tin. Dalla Cresta Zsigmondy, dalla Cima Popèra, dalla Croda
Rossa,... da tutte le Guglie del Vallon arrivarono a sovrapporsi con ordine, una
sull'altra, le grosse pietre trasportate dalla bufera a formare, stupenda
naturale opera d'arte, un ciclopico obelisco: la tomba di Tin.
L'altare dell'eroe! Un raggio dì sole diradò le nebbie: Eolo ripose le sue
trombe. La montagna non piangeva più. Un fiore rosso faceva capolino da una
crepa della torre, miracolosamente formatasi bella, slanciata, misteriosa, quasi
invisibile se fra questa e la parete di Cima Undici un impalpabile tessuto di
nebbia non fosse sceso a renderne evidente l'esistenza. Dopo tanti anni essa è
ancora là, intatta come allora, bella, inaccessibile forse, ma reale a
testimoniare un leggendario sacrificio...
Non ha ancora un nome.
Chiamiamola
pure: la Torre di Tin.