“PIONECCA”
NOSTRO PAPÀ
Sapevamo
che dovevamo fare silenzio, raccoglierci ed ascoltare. Prendeva da un taschino
della giacca la scatola di sigarette Muratti Ariston, la apriva, estraeva alcune
cartine dove, da sempre, con minuscola scrittura annotava di getto i suoi
sonetti.
Poi papà cominciava a leggere, e noi zitti con le
orecchie tese a strappare significati a quelle parole in una lingua misteriosa e
famigliare, che nella sua voce si facevano musica. Era un’occasione speciale.
Di solito lo vedevamo da lontano, ancora seduto a
capotavola, la schiena eretta davanti ad una manciata di bagigi e ad un
bicchiere di Merlot, lo sguardo dritto, i gomiti sul tavolo, l’ampia fronte
appoggiata alla mano. Intorno tanti libri, tutti i suoi libri: medicina, arte,
letteratura e naturalmente poesia; c’era anche uno dei primi registratori a
nastro e una cuffia con cui spesso si fasciava le orecchie, concedendosi respiro
dal baccano e dalla confusione di noi ragazzi. Musica classica, sonate,
concerti, sinfonie: Chopin, Prokofiev, Rachmaninov, e poi altri da attento ed
appassionato conoscitore. Mai un venerdì perso al Conservatorio, dove a turno
trascinava anche noi.
Prima di ritornare in studio al suo lavoro avrebbe
trovato ancora qualche istante per le sue piccole passioni: avrebbe curato le
rose sul terrazzo, dato un’occhiata ai canarini, e avrebbe portato a spasso
Ricki, il “nostro cane”, quello che, come lui diceva, “noi avevamo voluto
e a lui toccava d’occuparsene!”. In realtà lo adorava.
Non parlava molto - era di quelli che parlan di meno
e dicono di più -, anche a noi da bambini diceva: “ti, prima de parlar...
tasi!”. Riservato, taciturno e un po’ spinoso, papà pensava sempre che
nessuno lo ascoltasse o lo capisse, forse solo al
mus delle sue poesie o il suo cane.
Allora, per noi, quando a tavola leggeva i suoi versi
era proprio un’occasione speciale.
Un’altra occasione in cui raccontava volentieri di
sé era quando poteva parlare del suo lavoro; con passione ci narrava aneddoti e
curiosità, addentrandosi spesso in dettagli tecnici, che cercava di far capire
a noi ragazzi con accurati disegnini. Quello che alla fine ci comunicava e che
ci ha lasciato come cosa preziosa è un grande amore per la professione: il
piacere di fare le cose “bene”.
Chi fosse stato anche, nostro padre, l’abbiamo
scoperto piano piano, nelle estati, quando a giugno, dopo scuola, prendeva la
famiglia e ci portava in Comelico. Tutti sulla vecchia Borgward, l’Isabella,
davanti il papà e la mamma, dietro accatastati noi quattro, stanchi ormai dalle
lunghe ore di viaggio ma eccitati dal prossimo arrivo. E invece no, gli ultimi
chilometri erano una processione, ogni persona che incontravamo era una sosta
“assolutamente inevitabile” di saluti e memorie con i vecchi
compaesani. Rivedevano il dutór Pìu
Necca, il loro medico condotto, quello che rincorreva le chiamate dei malati
in sella alla sua Triumph, un cavaliere buono, forte e generoso e capace; uno
della loro terra, nato con il dialetto, lui, e il latte e il burro delle malghe,
e il fieno e il vino, la polenta e la grappa. Non come gli altri dottorini di
fuori che venivano qualche anno con le valigie sempre pronte e piene del sogno
del ritorno.
Così li aveva conquistati tutti, gli volevano bene e
anche dopo molti anni lo ricordavano in continuazione in cento aneddoti di
gratitudine e mille storie. Facce a noi quasi sconosciute s’infilavano dal
finestrino dell’auto a guardarci e accarezzarci: To pari...ah al dutór Pìu, chiudevano poi in quel dialetto, a noi,
ancora quasi incomprensibile.
Ma ci è rimasta nella memoria l’assoluta sincerità
della loro gioia e il loro entusiasmo per aver visto ancora una volta nostro
padre, per avergli potuto rivolgere il saluto - sani -, dargli notizia di un figlio che lui aveva salvato o di un
parente che non era più.
Era partito nel ’59, per andare ad abitare a Milano
con il cuore malato e una gran brutta cera. E’ andato avanti, avanti
liscio e quieto, silenzioso e tenace, ma con tanta malinconia.
Si può pescare a caso nei suoi versi e si trova
sempre il suo mondo di ricordi e di nostalgia del Comelico, della valle, delle
crode, dei suoi Alpini e della sua Gente.
Papà scrive
così, solo per sé. Scrive quello che pensa e sente con le parole che gli
insegnava sua madre; allora la città, la vita frenetica, la rincorsa al
danaro svaniscono, la quotidianità non esiste più... e neanche le sue
coronarie, fuori d’ogni fastidio e
d’ogni imbroglio.
E così anche noi scopriamo papà nei suoi sonetti:
sentimenti, emozioni legate a immagini semplici, attimi, volti, esperienze
private, amori. Alle nostre domande curiose e stupite lui sorrideva; gli piaceva
non far capire, tenere un po’ nascosti fatti e personaggi ma allo stesso tempo
voleva farci intuire che un fatto e un personaggio c’erano, eccome!
Quando leggeva le sue poesie era proprio
un’occasione speciale... e per noi è una soddisfazione poterla condividere.
Se papà avesse potuto immaginare l’edizione di questa raccolta dopo
venticinque anni dalla sua scomparsa...! “Io
ho sempre ragione... dopo!” era con noi un suo commento abituale.
Poi è tornato lassù. E’ andato a dormire in Pianezza.
A Dosoledo, a destra della chiesa
che guarda alla piazza sale una stradina, stretta, ripida. Inizia con una esse
appena prima d’una svolta cieca. Subito sulla sinistra c’è - c’è ancora
- uno di quei vecchi abbeveratoi per le bestie, e gli umani, con la mandata in
bronzo scuro. L’acqua è sorgente, freddissima e chiara. Poi la strada sale
ancora un poco, non molto, lungo la costa e lì, con il suo muro stinto color
crema, c’è il camposanto.
Pianezza. Qui finisce il paese ed il giorno, perché
è proprio qui che arrivano gli ultimi raggi quando il sole tramonta dietro l’Ajarnola.
E’ il posto più bello, il più bello e il più luminoso.
E qui c’è nostro padre.
Daniela, Paolo, Stefano, Maria Cristina