L’inverno riporta gli emigranti a
ricomporre gli affetti familiari nei quali dimenticare un anno di lontananza, di
fatiche e privazioni. Arriva intanto il carnevale: la gente esce con insolita
fretta dalla messa per occupare i posti migliori in piazza. Sono già sbucati in
fondo i paiàzi(pagliacci), solerti e variopinti ballerini
intenti
a
sgomberare il passo ai sontuosi lakè e matazin, avvolti nel vorticoso arcobaleno di nastri e sete pregiate,
saltellanti nel travolgente ballo della
vecä.
Il suono della rustica orchestrina
«fòl,
violin e basòn»
scuote d’incanto anche la gonna più longeva e devota ed impone al corteo un
procedere ritmato. Sfilano man mano le coppie “da bel” nei costumi esotici
più sgargianti.
In piazza un affettuoso cerchio di
persone si abbandona a tanta chiassosa allegria. Arrivano nel frattempo,
pigramente e vocianti, le maschere da vecu
dai nodosi volti in legno, vestite in costume nostrano grottescamente
esasperato: sono smaniose di commentare fatti e fattacci, vizi privati e
pubbliche deficienze. Risate e malcelati risentimenti accompagnano la colorita
requisitoria. Un ballo per i
borghi (borghesi), poi il lungo peregrinare per le
stue
delle belle ragazze. Finita nelle ore piccole la festa da ballo, rimangono poche
ore di sonno per poi smaltire ogni residua euforia tra le spondi
della liòdä
(slitta) sulle maledette erte di
pian d la karégä.